Mi ritrovo a Ponte Casletto, porta di accesso alla bassa Valgrande già di buon’ora. Il freddo è pungente e il silenzio fa quasi paura. Il tempo coperto; c’è una leggera pioggerellina, quasi vaporizzata e banchi di nubi corrono su per la costa apparentemente senza un senso. Mi infilo i guanti, le mani incominciano a lamentarsi e finalmente parto. Avevo troppa voglia di boschi selvaggi, di silenzi infiniti e valli incantate. Fatico a trovare l’imbocco del sentiero, anche se l’ho fatto diverse volte. La folta vegetazione del sottobosco lo celava ai miei occhi completamente. Mi incammino. Il sentiero è invaso completamente da immense ginestre, felci secche e roveti spinosi alti come me. A volte si alterna con tratti boschivi più puliti ma poi rincomincia. Fatico quasi a procedere. Le spine si impigliano nei miei vestiti e mi graffiano continuamente. Eppure il sentiero ha un che di magico, di fiabesco. Avvolto spesso da una fitta nebbia che ti lascia solo una ventina di metri di visibilità, percorro questo straccio di cammino che domina dall’alto l’angusta Valgrande solcata la in fondo dall’omonimo Rio. La “Valgrande”. Questa valle misteriosa, tetra, aspra, ricca di storia. Ha un fascino tutto suo e io ne resto sempre colpito come fosse la prima volta che ci entro. “Entrare” in Valgrande!! Questo è il termine che si usa per dire quando si viene a visitare questi posti meravigliosi.
Il sentiero va avanti snodandosi lungo la valle , seguendo fedelmente le pieghe naturali della costa. A tratti si intravedono ancora muretti a secco di sostegno, a testimonianza di una frenetica attività del passato. In un momento in cui la nebbia lascia spazio alla vista, scorgo in fondo alla valle la netta traccia del sentiero che corre lungo il torrente e che porta nel cuore della Valgrande. Orfalecchio, l’Arca, In La Piana. Per chi li conosce, nomi importanti, storici, che mettono quasi timore e rispetto allo stesso momento. Molte ore di cammino, tante, quasi una giornata intera, per ritrovarsi poi nel nulla più assoluto. E il giorno dopo per tornare a casa ancora muri di fatica.
Ma oggi seguo un altro tragitto, più corto, ma sempre suggestivo. All’improvviso mi compare davanti la cappelletta della Riscia Granda. Probabilmente eretta per una grazia ricevuta o solo per devozione. Chissà quante anime nel corso del tempo si sono fermate alla ricerca di qualcosa più grande di loro, per una preghiera o più semplicemente un segno della croce durante il cammino. Resti di un dipinto che forse avrà più di 100 anni, mozziconi di lumini, una foto sbiadita. Lacrime.
Si riparte. Non appena il sentiero si fa più ripido appaiono i primi ruderi, come fantasmi nella nebbia, poi all’improvviso agglomerati di baite una a ridosso dell’altra. Sembrano scheletri che si sostengono gli uni con gli altri. Forse più di trenta, alcune senza tetto altri ancora in piedi come a volere sfidare il tempo. Quanta storia aleggia fra queste mura secche e abbandonate. Sbircio all’interno di una baita traballante ma ancora eretta e fiera. Dentro pentole nere abbandonate in una nicchia del muro, una scatoletta arrugginita di sardine, una sedia senza una gamba e con la seduta sfondata, il muro nero di fuliggine di fuochi passati a cucinare polenta, un mestolo di legno attaccato al soffitto insieme ad una trappola per topi che ormai non fa più paura a nessuno. Sul trave della porta è inciso una data e due iniziali: 1854 L G.
Milleottocentocinquattraquattro !! Mamma mia, ne devono essere passate di vite di qua. Chissà quante storie, quante fatiche, quanti pianti. Vite di stenti, di fatiche. Di sopravvivenza.
Mi sembra di profanare qualcosa, mi sento quasi un intruso, che non merito di essere qui. Poi un rumore fuori dalla baita mi fa ritornare in me. Esco. Una capra con il suo piccolo mi guardano incuriosite. Decido che è ora di fare uno spuntino e divido con loro il mio panino. Il vino no.
La nebbia ora è più fitta e la visibilità è praticamente a dieci metri. Quale momento migliore per fare un salto anche a Velina? Riparto di buon passo . Ora sono sul sentiero principale che va da Cicogna al ponte di Velina, perfettamente pulito e in ordine. Le mie gambe volano veloci e sicure. Alcuni tratti attrezzati con catene mi permettono di attraversare con facilità punti critici. Arrivo a Baserga deserta e avvolta nella nebbia più fitta. Del Piero, l’ultimo eremita, neanche l’ombra. Eppure deve essere nei dintorni. La sega su questa catasta di legna e la carriola di fianco lasciano intendere che sia qui intorno nei boschi. Suono la campana appesa alla sua baita, ma il silenzio domina sovrano. Faccio un paio di foto, lascio un biglietto di saluti infilato nello stipite della sua porta e riparto sui miei passi. A Montuzzo le capre sono diventate tre. Lascio a loro l’ultima barretta ai cereali poi dritto fino a Cascè, frazione di Cicogna, ultimo baluardo di civiltà prima di entrare in Valgrande. Da li un sentiero ricama gli ultimi tornanti asfaltati e in breve mi riporta alla mia macchina. Mi guardo ancora un po’ in giro; un po’ di malinconia mi assale, ma fra mille immagini e profumi che mi porto dentro, prometto di tornare.